SOCIETA’

SQUID GAME

Paolo Vieta

Solo in apparenza è un libero arbitrio, in realtà inficiato dalla non conoscenza dei passi successivi del gioco.

In queste settimane sta diventando virale, non solo in Italia, Squid Game (2021) una serie televisiva sudcoreana, prodotta a distribuita da Netflix, che ci dà modo di riprendere alcuni temi già affrontati. In primo luogo la serie, in nove puntate, è marcatamente sudcoreana non solo nell’ambientazione e negli attori, ma anche nei temi trattati, a cominciare dal gioco del calamaro (squid game) a cui deve il titolo che, personalmente, non ricordo di aver mai visto in Italia. Così come lo sono i dalgona, tipici dolci di zucchero caramellato. Il che porta ad una riflessione sul modus operandi di Netflix. Da un lato abbiamo denunciato (si veda Quale futuro per il cinema) il rischio che l’integrazione verticale della filiera (produzione e distribuzione in mano ad un unico soggetto) e l’enorme disponibilità economica di investimenti schiaccino le cinematografie nazionali che si appoggiano al circuito tradizionale, imponendo un monopolio economico al settore. Dall’altro dobbiamo riconoscere che, anche grazie ai tetti imposti da autorità governative come l’Unione Europea, parte delle produzioni hanno una caratterizzazione nazionale, limitando il rischio di monopolio culturale. Penso, ad esempio a Trapped o a Katla, ambientazione e produzione islandese per un poliziesco ed una science fiction i cui personaggi, indagati nel profondo, rivelano inquietudini molto vicine al teatro nordico di Ibsen o Strindberg. Quindi la vasta offerta di questo colosso, opportunamente normata, consente l’affermazione globale di produzioni non americane, La casa di carta è spagnola non solo per essere stata girata a Madrid. Possibilità che il cinema classico hollywoodiano non avrebbe dato essendo, in questo senso, assai più colonizzatore. Squid game narra la vicenda immaginaria di 456 persone che, sommerse da debiti che non possono ripagare, sono adescate a partecipare ad una serie di giochi con la promessa di una grossa vincita: le regole del gioco non sono però spiegate prima dell’accettazione e la loro violenza, sia fisica (splatter) sia psicologica, sconsigliano la visione ai minori di 14 anni. Il metodo di adescamento, verso la fascia più debole e ricattabile della popolazione, ha evidenziato una critica sociale al sistema coreano il cui debito privato ha raggiunto una dimensione comparabile con il PIL, alimentando la sperequazione tra classi. In effetti, questa cooptazione ricorda molto quella descritta ne Il seme inquieto da Antony Burgess, stesso autore, sempre nel 1962, di Arancia meccanica. Se quest’ultimo, portato sullo schermo da Kubrick, è l’apoteosi dell’idea di una violenza intrinseca all’essere umano (si veda Militarismo, antimilitarismo, Kubrick) con buona pace di Jean Jacques Rousseau, ne Il seme inquieto si arruolano i disperati della società allo scopo di mandarli a morire, in una guerra fittizia, perché un’umanità stremata dalla carenza alimentare, possa sopravvivere nutrendosi dei loro corpi. Con queste premesse si inizia a delineare la violenza della serie. Avvertenza per il lettore: nei prossimi paragrafi si svela la trama; chi vuole vederla serbando la sorpresa, può saltare all’ultimo paragrafo. I 456 reclutati, tra i quali ci sono disperati che vivono di espedienti, giocatori d’azzardo, un broker che ha truffato i clienti, un delinquente di piccolo cabotaggio che ha indispettito pesci più grossi di lui, una ragazza che tenta di strappare la famiglia alla Corea del Nord, un anziano con tumore al cervello, sono narcotizzati e trasferiti in una sorta di formicaio appositamente costruito su un’isola lontana. Alloggiano in una grande sala comune, sono vestiti con uniformi e si spostano in corridoi che ricordano Relatività di Escher (1953). Il primo gioco è 1, 2, 3 … Stella! ma, con amara sorpresa, chi sbaglia è immediatamente ucciso da armi poste sui lati dell’arena. Si dimezza così il numero dei partecipanti, tra colori pastello e musiche rilassanti che ricordano Auschwitz, per come i prigionieri erano condotti alle camere a gas in un’atmosfera tanto amena quanto falsa. Al rientro al dormitorio si avvalgono della possibilità, approvata a maggioranza, di abbandonare il gioco senza alcuna vincita, mentre sulle loro teste il montepremi aumenta delle quote dei deceduti. Tornati all’amara realtà quotidiana, fatta di stenti, minacce, ricatti o paura del carcere, la maggior parte opta volontariamente per ritornare a giocare. Solo in apparenza è un libero arbitrio, in realtà inficiato dalla non conoscenza dei passi successivi del gioco. Anche la seconda prova è individuale e porta ad un altro dimezzamento dei partecipanti con relativo aumento del montepremi.

Al rientro nel dormitorio, una rissa degenera in omicidio sotto lo sguardo inerte delle guardie, anch’esse peraltro meri ingranaggi di un sistema controllato dai potenti VIP. Qui c’è la svolta: se le guardie non intervengono, significa che l’eliminazione degli altri giocatori è lecita, anche al di fuori dell’arena, con aumento del montepremi per i superstiti. Mors tua vita mea. Nottetempo si formano gruppi di partecipanti ed i più forti uccidono decine di altri, non abbastanza coesi da difendersi. Da qui in poi i giochi sono tutti ad eliminazione diretta prima a squadre, poi a coppie, quindi in sequenza: i primi devono sacrificarsi per far avanzare gli altri. Se all’inizio ed al rientro, c’è l’aspettativa di vincere, anche in molti, solo rispettando le regole del gioco, adesso la situazione è competitiva. Squid game diventa a pieno titolo un Battle Royale (si veda Fortnite da videogioco a fenomeno sociale), sul filone iniziato dall’omonimo libro nipponico, ripreso da Hunger Games, quindi da Fortnite e da tutti i videogiochi in stile arena. Questa la ragione del successo per lo più tra i giovanissimi. Quando il numero dei giocatori si restringe, arrivano i VIP, circondati dal lusso più ostentato, odalische incluse, ad osservare e scommettere divertiti sull’esito dei giochi. Le situazioni psicologicamente estreme portano i protagonisti a comportamenti parimenti estremi: c’è chi uccide per sopravvivere e chi, invece, si immola per salvare l’amico, tra cui l’anziano col tumore n° 001 che lascia vincere n° 456; situazioni che ricordano, purtroppo, tanta reale memorialistica di guerra. L’apoteosi è nel duello finale, tra i due ultimi rimasti. Inizialmente brutale, la sabbia negli occhi dell’avversario richiama Cavalleria rusticana, si eleva di tono quando il protagonista n° 456, rinuncerebbe alla vincita per salvare l’amico d’infanzia, ma questi, il broker, si uccide per dare almeno a lui la vittoria ed il montepremi milionario, con cui potrà prendersi cura della sua anziana madre. Squid game dà comunque ancora la possibilità di uscire, se entrambi concordano, non è necessaria una sfida alle regole, come quella con cui Katniss riesce a salvare Peeta in Hunger Games. Tornato alla vita reale, n° 456 è troppo sconvolto per approfittare di una fortuna di cui non si capacita e continua a vivere miseramente. Quando è ricontattato dall’organizzazione, il pensiero dello spettatore corre a Westfront (1930) o The hurt locker (2008), in cui il soldato torna a combattere perché non può riambientarsi nella vita quotidiana a valle degli orrori che ha vissuto. Qui però l’esito è diverso, non rientra nell’arena, ma ritrova l’anziano n° 001, ormai morente per il tumore, che gli svela essere uno dei VIP e l’organizzatore del gioco, creato per rallegrare la noia di chi ha troppi soldi e può comprarsi tutto, con riferimento al circo romano dei gladiatori od ai combattimenti mortali di Django Unchained (2012). La vita è miserevole non solo per chi ha pochi soldi, ma anche per chi ne ha troppi e non riesce a darle un significato, sulla denuncia sociale prevale un’idea pessimistica dell’umanità. Ma anche guardare il gioco, non risolve la noia, solo partecipando in prima persona ci si appaga ritrovando le emozioni dell’infanzia che sembravano perdute. Le serie televisive di successo sono molte e presto dimenticate in un susseguirsi incalzante di nuove uscite. Squid Game sta diventando virale perché va oltre il suo canale di provenienza. L’essere un Battle Royale crea il desiderio di giocarlo, virtualmente intendiamoci bene, ed è già stato simulato negli ambienti creativi di videogiochi come Minecraft e Fortnite, dove è utilizzato da youtubers che registrano le partite e le rilanciano sul social contribuendo a creare interesse per la serie. Siamo quindi di fronte ad un fenomeno mediatico che trascende la televisione, per investire direttamente le sfere del gaming e dei social in un mondo che è sempre più interconnesso e con canali sempre più trasversali. Il che pone qualche problema etico a tutela dei più giovani, nel momento in cui si arriva a chiedere il ritiro della serie a causa della possibile emulazione dei giochi nella realtà. Come genitore ho vietato ai miei figli infraquattordicenni di vederla, parlandogliene, perché conoscano il mondo che li circonda. Che la cosa sia ripresa in una piattaforma di gaming è invece innocuo nel momento in cui il gioco punta al fumetto piuttosto che al crudo realismo.