SOCIETÀ
VIVERE CENT’ANNI
Mara Antonaccio
Quando la cellula ha finito il numero di riproduzioni stabilito geneticamente per il suo ruolo, attiva i terminatori e muore
I progressi scientifici e medici e il miglioramento delle condizioni di vita e dell’alimentazione hanno fatto sentire le loro conseguenze sull’aumento della speranza di vita. Se fino al secolo scorso l’età media era di circa 50 anni, oggi in Italia si arriva a 81 per gli uomini e 85 per le donne. Ne abbiamo fatta di strada per permettere questo traguardo e il nostro Paese risulta essere tra i più longevi al mondo, con 14.456 ultra centenari (dati ISTAT al 2019). E come si comporta la società con questi Highlander? Li venera? Li considera fenomeni, li rispetta o in fondo li considera un peso? Spesso si sentono frasi come: “e ma che vuole? Ha cent’anni, la sua vita l’ha fatta, altri sono già morti da tempo”; è come se essere sopravvissuti a guerre e malattie, nonché alle fatiche della vita, sia una colpa. Da cosa nasce questa antipatia di fondo? Dal pensare che non potendo più far parte del tessuto produttivo della società, sono un peso? Che tocca pagare all’infinito le loro pensioni? O perché sono la dimostrazione che si può vivere a lungo e in salute, in barba a tutti gli allarmismi e le paure che costantemente ci bersagliano? Certo è che in un paese che invecchia inevitabilmente, cosa che ha portato la Società di Gerontologia ad alzare la soglia da cui si è considerati over: da 65 a 75 anni, essere “troppo vecchi” non va bene, atteggiamento paradossale per in un mondo in cui i giovani sono già vecchi e usurati dentro a vent’anni, e gli ultra ottantenni fanno “cose da ragazzi” tipo viaggiare, fare sport, avere vita sociale e magari fare ancora sesso soddisfacente. Come in molti altri ambiti, l’Uomo mostra comportamenti opposti: siamo contenti di avviarci verso la “vita eterna” o in realtà la cosa ci infastidisce, portandoci a considerare una colpa avere 100 anni? Certo che è auspicabile che l’innalzamento dell’età media vada di pari passo con la conservazione di una vita attiva e sana, ma credo che in fondo il DNA la faccia ancora da padrone, in barba a intelligenza, evoluzione e progressi scientifici. Mi spiego. Tecnicamente le cellule viventi sono immortali, se non intervengono malattie o fattori esterni di natura chimica, fisica o meccanica, che ne causano la morte prematura; questa caratteristica ha obbligato il DNA del brodo primordiale a operare una scelta: per poter replicare se stesso e compiere mutazioni favorevoli alla sua esistenza, ha deciso di far morire la generazione precedente, per garantire quella nuova, mantenendo relativamente costante il numero degli individui. E come ha fatto? Inventando i geni terminatori. In biologia il terminatore è una sequenza di basi azotate in grado di bloccare la trascrizione di un gene che attiva l’enzima RNA polimerasi, che replica tratti di patrimonio genetico. Quindi la cellula madre deve morire per lasciare posto a quella figlia, in un equilibrio vecchio di miliardi di anni. In un organismo complesso come quello di un uomo, in che modo si manifesta la sua egemonia? Ogni cellula somatica, cioè che compone tessuti e organi, ha un numero di replicazioni, dette mitosi, stabilito geneticamente in base alla sua funzione: ad esempio le cellule del sistema nervoso hanno pochissime mitosi a disposizione, mentre le cellule del derma ne hanno migliaia, visto il ricambio sistematico cui devono fare fronte.
Quando la cellula ha finito il numero di riproduzioni stabilito geneticamente per il suo ruolo, attiva i terminatori e muore. Aver inventato la “scadenza” di un tessuto, porta al progressivo invecchiamento degli organi e degli apparati, sino alla morte dell’intero organismo. Sono secoli che la scienza cerca di trovare il modo di bloccare questo meccanismo, ma sino ad ora con scarso successo: elisir di lunga vita, sangue di vergine, patti con Lucifero, trasfusioni e molti altri metodi al limite dell’incredibile. Poniamo il caso che questo prima o poi avvenga (se analizziamo i progressi scientifici dell’Umanità degli ultimi 100 anni, presumo che non avverrà tra molto), cosa succederà alle nostre società, chi potrà invecchiare ab aeterno? Di sicuro saranno le classi sociali che posseggono il potere economico, a poter spostare avanti l’incontro con il Creatore, ma questa eventualità determinerà obbligatoriamente un rigidissimo controllo delle nascite: i futuri Matusalemme non potranno accettare sovrappopolamento ed esaurimento delle risorse alimentari ed energetiche; il sesso diventerà tabù per le persone normali, si arriverà alla creazione di una casta di riproduttori, mentre i “prolet” vedranno limitate al minimo le loro discendenze (la lucida lungimiranza di George Orwell docet). Sono scenari per nulla fantascentifici e neppure troppo lontani: seppur provocatorie, queste ipotesi non sono così incredibili. Inconsciamente, quindi, ci facciamo guidare dal nostro acido nucleico e tendiamo a non sopportare troppo i vecchi, anche perché perdono l’autonomia, sono avidi di affetto e attenzioni e vivono di ricordi, che nessuno ha tempo e voglia di ascoltare. La verità è che non c’è posto per loro in questa società votata alla produttività, alla efficienza e al consumismo. Di fatto i grandi vecchi, che un tempo erano i depositari della cultura e della saggezza di un popolo, sono scarti non utili, improduttivi e instabili, con gli occhi sempre pronti a riempirsi di lacrime, al pensiero di quello che sono stati, maleodoranti e fragili, a cui non vogliamo pensare e che intralciano i nostri programmi di vita. Sarebbe bello non invecchiare, avere una “data di scadenza” stabilita geneticamente ma non conosciuta, alla quale però si possa arrivare da ventenni, età in cui si smette di crescere e si comincia, di fatto, ad avvicinarsi alla morte. L’idea non è originale, ci ha pensato anche Ridley Scott nel suo capolavoro del 1982, Blade Runner, in cui la razza dei replicanti costruiti in serie per svolgere mansioni di vario tipo non più gradite agli umani, veniva prodotta con la fine programmata dopo un certo numero di anni, che raggiungevano inconsapevoli, con le stesse sembianze date alla loro creazione, senza mutare. Chissà cosa ci aspetta, possiamo solo fare congetture e sperare di diventare ultracentenari in grado di essere autonomi e di aspetto gradevole, non come il popolo degli uomini che non morivano mai, che invecchiavano inesorabilmente, diventando come ulivi contorti, che Gulliver incontra in uno dei suoi viaggi. L’evoluzione scientifica e tecnologica sono sistemi complessi, in cui entrano troppe variabili per poter fare previsioni attendibili, chissà se vedremo qualche risultato nelle nostre vite. Per il momento cerchiamo di rendere piacevole quella che abbiamo, tenendo in salute l’involucro e vivace la mente, poi si vedrà.