SOCIETA’
PERCHÉ LA SOCIETÀ CI VUOLE MAGRI?
Mara Antonaccio
Quindi il messaggio dominante è che, se vogliamo essere felici, dobbiamo essere magri.
Il concetto estetico di magrezza racchiude un complesso universo di motivazioni, in cui si mescolano questioni mediche e risvolti patologici, benessere psico-fisico, aspetti culturali e implicazioni socio-antropologiche, con evidenti ripercussioni sulla persona e il suo ruolo sociale. E’ ormai evidente da decenni, che le popolazioni occidentali abbiano grossi problemi di salute, a causa di malattie legate all’eccesso di cibo, che peggiorano la qualità della vita e aggravano gli stati di costi per il welfare pubblico. È ovvio che moderare il consumo, indipendentemente dalla condizione o meno di sovrappeso, non può che giovare al quadro di salute generale dei cittadini e del Pianeta. Tutte motivazioni degnissime, sia da un punto di vista filantropico, che ambientale, che salutistico, peccato però che in una sorta di “schizofrenia” concettuale, da un lato le Istituzioni elargiscano consigli e raccomandazioni per auspicare condizioni di salute ottimali, dall’altro l’industria alimentare sforni prodotti di scarsa qualità, altamente calorici, ricchi di sostanze chimiche, conservanti e stabilizzanti, che danno dipendenza psico-fisica, e che quella farmaceutica proponga una vasta gamma di inutili e costosi rimedi dimagranti. L’obesità è diventata un male epidemico del villaggio globale, al mondo ci sono 500 milioni di obesi e oltre 1 miliardo e mezzo di persone in sovrappeso, che entro il 2030 saranno 3 miliardi e mezzo. La causa di tutto questo è da ricercare nell’abbondanza di cibo (mai l’Umanità ha vissuto un periodo simile per disponibilità, nonostante le diversità regionali) e nell’effetto di un cambiamento alimentare, che fa abbandonare regimi tradizionali (quello mediterraneo per la nostra area geografica), per approdare a nuovi modelli di consumo, nella cosiddetta westernizzazione della dieta, cioè l’adozione di stili alimentari anglosassoni e americani. Una mutazione che non comporta solo la trasformazione dei modi di mangiare, ma delle strategie biopolitiche per orientarli, dei protocolli di cura e delle rappresentazioni del corpo per gestirli, e dei cambiamenti demografici ed economici. La questione è diventata di tipo socio-culturale: viviamo in società popolate da persone in sovrappeso ma gestite con la mentalità dei magri, per cui oltre ai problemi legati alla salute, ci troviamo di fronte a serie dinamiche di accettazione e inserimento sociali. Essere in sovrappeso vuol dire essere “meno”: meno performanti, meno belli, meno adatti a lavori di rappresentanza o meno meritevoli di considerazione, non importa che competenze si siano acquisite e che caratteristiche professionali si posseggano, conta la taglia! Il disprezzo sociale per i grassi si trasforma in discriminazione lavorativa; i risultati di molte ricerche evidenziano una stretta correlazione tra disoccupazione e obesità. Questo genera un circolo vizioso difficile da spezzare, perché più a lungo non si lavora, più probabilità si hanno di diventare obesi, di ammalarsi e di essere scartati, perché ad alto rischio. La questione si aggrava se si fanno indagini di genere; analisi condotte hanno evidenziato come le donne magre ricoprano ruoli di maggior prestigio e guadagnino di più di quelle in sovrappeso; le donne curvy non hanno molte chances di impiego, se sono in lizza con concorrenti normopeso. In passato i datori di lavoro avrebbero valutato le competenze, la capacità di apprendimento, la disponibilità, l’efficienza, la motivazione, cioè gli indicatori delle abilità dell’individuo, ora contano chili e centimetri! Così si valuta il corpo e non la mente e si giudica in base ad un maschilismo che riduce l’individuo alla sola dimensione fisica in nome dell’efficienza corporea, un ulteriore carico per il ruolo sociale delle donne, che a prescindere dal peso, devono sempre dimostrare qualcosa, in un tentativo perenne di scrollarsi di dosso il “peccato originale” della femminilità. Se la storia lavorativa e le competenze contano meno della bilancia, la persona si riduce a solo corpo e il sovrappeso diventa una pregiudiziale che inficia tutta la complessità dell’individuo. Gli obesi sono le “oche da ingozzo” del villaggio globale: prima ingrassati dal mercato del cibo spazzatura, di cui sono gli “insaziabili” contribuenti, poi additati da un sistema che li condanna coram populo come mangiatori senza freni, parassiti improduttivi, senza volontà, cambiali per il sistema sanitario e per il welfare. Puniti, umiliati e offesi perché grassi (e questo non riguarda solo i grandi obesi ma anche le persone che vivono un sovrappeso esteticamente e organicamente accettabile!).
La cosa non deve meravigliare, nella società della religione del fitness, dell’efficienza, della velocità e della leggerezza ad ogni costo, non c’è posto per le taglie plus, la grassezza è una colpa, peggio, una disabilità, che nutre una vera e propria ’obesofobia’. Ma qual è la soglia della normalità, usando il corpo come variabile del rapporto tra individuo e collettività? Se è vero che la società moderna non ama i volumi eccessivi, è altrettanto vero che questi non hanno una taglia fissa, che il corpo ne è l’indicatore e che grasso e magro ne sono l’algoritmo. Quindi il messaggio dominante è che, se vogliamo essere felici, dobbiamo essere magri; questo trasforma il grasso da caratteristica fisica a peccato e poi malattia; un tempo quasi nessuno usava la bilancia, oggi è impossibile non conoscere il proprio peso. In questo modo gli abbondanti diventano la rappresentazione emblematica di un mondo diviso tra chi non mangia e chi mangia troppo, in cui il peso-forma diventa misura di una omologazione verso la normalità, che plasma il corpo e standardizza l’anima. Il grasso è il nemico, gli obesi quelli “diversi” da controllare e punire. L’obesofobia sta assumendo i toni rigidi di un ortodossia e quelli intolleranti di una persecuzione, come se i volumi alterati del corpo corrispondessero a deformazioni mentali, una macchia morale e una imperfezione sociale da cancellare. Tutto ciò porta al convincimento che questi esseri palesemente deboli, non meritino di ricevere gli stessi privilegi e opportunità dei normopeso; c’è chi vede l’origine di questo pregiudizio nella base solipsista e puritana del Protestantesimo, che sta alla base della cultura anglo-americana, che considera l’autodisciplina e l’autocontrollo doveri sociali e morali. Quindi il sovrappeso diventa per estensione la manifestazione tangibile di una colpa e di una tendenza incontrollabile a peccare, un’asserzione di pigrizia, di inaffidabilità e perfino di scarsa intelligenza (lo stereotipo del ciccione buffo, goffo e stupidotto, che fa ridere e per le donne, l’amica ideale che non ti porterà mai via il fidanzato o il marito). Il problema è che la stessa società che ci vuole magri, fa di tutto perché non lo restiamo. Siamo bombardati da immagini, pubblicità, trasmissioni televisive in cui si parla di cibo, ovunque si vende cibo, si prepara cibo; la Grande Distribuzione studia e analizza i nostri comportamenti e calibra la propria offerta sulle nostre necessità, proponendo monoporzioni, cibi pronti congelati, stabilizzati, eterni. Nelle vie delle nostre città l’offerta ristorativa è pressoché illimitata, permettendoci certo di incontrare il Mondo, nel nome del Villaggio Globale, ma rendendo disponibile cibo ad ogni ora del giorno e della notte, facendo saltare ogni ragionevole regolazione dei pasti. Non parliamo poi della tendenza, ormai irreversibile nell’epoca post pandemica, di spingerci a restare in casa, poiché con il computer, e grazie al Web, possiamo comprare, visitare luoghi e incontrare persone in modo totalmente virtuale e limitando al massimo la anche minima attività fisica. Siamo esposti ad un continuo tiro alla fune, ai cui capi stanno da un lato il buon senso e l’alimentazione responsabile, dall’altro le logiche ferree del profitto economico dell’industria. L’etica è stata sostituita dalla dietetica, la crociata verso la normalizzazione passa attraverso la scarsa nutrizione e il modello di magrezza come vincente, l’unico che porta alla salute e alla salvezza; questa società della silhouette filiforme e della mortificazione delle curve, ha coniato l’undicesimo comandamento, quello della magrezza a tutti i costi, come se esistesse un Anubi che pesa i corpi, invece che il cuore o le anime, in una versione moderna del giudizio universale. Le persone “over”, “plus size” si trasformano in vittime sacrificali di fenomeni sociali, di medicalizzazioni obbligate e di gestioni politiche; agnelli votivi di una società bulimica, che lenisce i suoi eccessi e le sue paure, dando la falsa impressione di tenere alla salute dei suoi componenti, che in realtà finiscono per essere grassi e ghettizzati. Che la “Pentecoste” della nutrizione consapevole ci aiuti a resistere alle tentazioni!