EDITORIALE
MA SE IO AVESSI PREVISTO TUTTO QUESTO
Guido Barosio
Non ti piace il menu in tavola? Non sai cosa scegliere? Tutti ti danno fastidio? Datti al giardinaggio.
Anno 1976, Francesco Guccini cantava: “Ma se io avessi previsto tutto questo. Dati, cause e pretesto. Le attuali conclusioni…” (“L’avvelenata”). A me è andata meglio, perché avevo previsto esattamente i risultati elettorali di questo famigerato 25 settembre. Cosi, tutto sommato, potrei rifarmi a Riccardo Cocciante: “Era già tutto previsto, fino al punto che sapevo che oggi tu mi avresti detto quelle cose che mi dici, che non siamo più felici…” (album “L’alba” 1975). Diciamo anche che non era indispensabile Nostradamus, perché da fine estate i sondaggi annunciavano lo tsunami perfetto: PD in affanno (progressivo, con tendenza alla catastrofe), FDI allo zenith, M5S in progresso grazie al cordone sanitario che li cingeva, Forza Italia e Lega anonimi comprimari, invecchiati di colpo, come le mele sulla pianta quando cambia il tempo. Forse la vera sorpresa è stato il Terzo Polo, caso rarissimo dove il risultato finale ha superato la somma delle parti. Ma in questo caso il punteggio – comunque non altisonante – si spiega come una fuga, e un approdo, per i tanti scontenti dalla destra, dalla sinistra, dai postfascisti, dai cinque stelle peronisti, eccetera, eccetera. Gli altri sono stati a casa. Tanti altri. Ma è giusto così. Gli appelli al voto a tutti i costi mi hanno sempre procurato l’orticaria. Non ti piace il menu in tavola? Non sai cosa scegliere? Tutti ti danno fastidio? Bene, lascia fare agli altri, dedicati a Netflix o al giardinaggio, nessuno sentirà la tua mancanza. Che poi l’appello al voto come la cosa più bella che c’è viene sempre lanciato da chi sta per subire una sonora bastonata elettorale. In questo caso (come in diversi altri precedenti) dalla sinistra, che invoca i padri della patria, la libertà ritrovata del 1945, la democrazia patrimonio di tutti. Archeologia ormai senza emozioni, come la demonizzazione dell’avversario che si può attaccare dall’Italia, ma meglio ancora dall’estero, e allora via coi paginoni tedeschi, francesi e americani e – guest star – si aggiunge pure madame Von der Leyen, che ci tratta come scolaretti molesti. Un insieme di fattori che, a parer mio, è valso un buon 5% in più nelle casse della Meloni. Ripetendo il ritornello di Cocciante viene da dire che anche il post elettorale – “era già tutto previsto” – non ci offre grandi novità. A partire dai grandi media, tivvù e giornaloni, che sembrano più interessati agli sconfitti che ai vincitori. Pentimenti? Scuse agli elettori? Analisi della batosta? Niente di tutto questo, perché noi abbiamo la compagine di perdenti più antipatica d’Europa. Innanzitutto si incolpano per bene gli elettori, che non hanno capito, o, se hanno capito, hanno sbagliato. Sono loro che ci hanno regalato “I giorni più tristi dell’Italia”. E Poi – ascoltate bene – non è che la destra ha vinto, perché non rappresenta la maggioranza assoluta degli italiani. Certo, se sommiamo tutti coloro che non hanno votato per loro – ogni altro partito comprese le briciole, gli astenuti, gli assenti, i malati gravi e una quota di animali domestici – viene fuori un risultato diverso, ribaltato. Accidenti allora la colpa è della legge elettorale. Che, guarda caso concepì il PD, ma è un dettaglio. Come un dettaglio è che questa è la peggiore legge elettorale di tutte le democrazie al mondo. Non ci si capisce una mazza a leggerla anche tre volte, ma una cosa si coglie: i candidati li scelgono i partiti, noi no, spostandoli sul campo come in un album delle figurine. Il post elezioni dei perdenti comprende anche le minacce di fuga all’estero (magari!), le fantomatiche “liste nere” di proscrizione capeggiate da Saviano (di nuovo magari), per arrivare, questa è una novità, alla colpevolizzazione dei vecchi al voto concepita dall’influencer Giulia Torelli.
Con Saviano e Torelli alla guida del PD la destra potrebbe governare serena per i prossimi 15 anni. Chiudiamo la disamina con il rimpianto del Campo Largo. E allora vale proprio tutto, perché ogni elettore avveduto immagina che dall’abbraccio tra PD e M5S il risultato non può che essere inferiore alla somma: troppe differenze, rancori, reciproche delegittimazioni. Scalfari, anni fa, dopo una delle storiche vittorie di Berlusconi, scrisse che alla sinistra (allora di Prodi) mancava afflato romantico, visione, ottimismo. Ingredienti che aveva lasciato alla destra scegliendo rigore, scure fiscale, manette nelle mani dei magistrati. Ancora oggi è così: Kennedy è un fantasma mentre il PD è un club di anonimi contabili. Nel 2014 – anno d’oro di Renzi, lui si politico di forte impatto mediatico – il PD ottenne alle europee il 41%. Otto anni dopo siamo al 19. Fratelli d’Italia alle politiche del 2018 aveva il 4,35%, oggi il 26%. In questi quattro numeri si legge la storia politica del nostro paese. Dove non c’è più l’elettorato conservativo degli anni settanta, e in pochi anni avvengono rivoluzioni. I saliscendi del M5S confermano la tendenza. E ora cosa ci aspetta? Un mesetto di cerimonie, perché il nostro ordinamento istituzionale è lento, barocco, noioso. Prima si convocherà il parlamento, poi si eleggeranno i presidenti di camera e senato, dopo Mattarella sentirà le forze politiche, dopo ancora nominerà la Meloni come presidente incaricato. A questo punto la leader di FDI sentirà a sua volta tutte le forze politiche e poi salirà al colle con la lista dei ministri. Se non siete già stati colti da narcosi vedrete apparire all’orizzonte il primo governo di destra della nostra storia repubblicana. Perché di governo di destra si tratterà, FDI non è un quieto travaso di elettori dalla Lega e Forza Italia, la sua storia è diversa, con radici diverse. FDI discende direttamente dal MSI di Giorgio Almirante, niente a che fare col populismo secessionista griffato Alberto di Giussano, niente a che spartire col partito azienda di Silvio Berlusconi. Ma il fascismo, come ho scritto nel precedente editoriale, è vecchio di cento anni, gli scenari sono mutati inesorabilmente, le sfide che ci attendono (anche drammatiche) sono quelle del terzo millennio, che non è proprio partito col piede giusto. Giorgia Meloni è una leader concreta e preparata, in grado (saggiamente) di parlare linguaggi diversi con diversi interlocutori. Il suo pragmatismo può portala in Europa con l’autorevolezza che troppo spesso è mancata a chi l’ha preceduta, Draghi escluso. Ma Draghi non era un politico, era l’uomo dell’emergenza, con un percorso breve di fronte, com’è stato. Quello di Giorgia Meloni non sarà un compito facile, anzi sarà il più arduo dal 1945 ad oggi: epidemia ancora da debellare, crisi energetica, guerra in Ucraina, recessione, scenari europei fluidi e complessi, quelli mondiali ancora peggio. Serve coraggio, capacità di individuare gli obiettivi, attenzione nella scelta dei partner e delle alleanze, competenza in continua evoluzione e gioco di squadra. Anche in Italia, dove le battaglie da cortile vanno chetate, dove non si può sperare che cada un governo così dopo tocca noi, che faremo meglio. Oggi, se si sbagliano le mosse, rischiamo di non averlo proprio un dopo. O di averlo molto peggio del prima. Questa volta anche Cocciante e Guccini non ci sono di aiuto, il tempo delle previsioni è finito.