CINEMA

Incontro con Luchino Visconti, intervista immaginaria

Beppe Valperga

“Né la vecchiaia né la malattia hanno piegato la mia voglia di vivere e di fare”.

Quando mi è stato chiesto di fare un’intervista a Luchino Visconti, assolutamente immaginaria perché morì a Roma il 17 marzo 1976 (non ancora settantenne, essendo nato a Milano il 2 novembre 1906), l’idea di incontrarlo era emozionante, un vero privilegio poter parlare con un maestro, un importante e indimenticabile uomo di cultura del Ventesimo Secolo, artista completo e sensibilissimo, regista cinematografico e teatrale, sceneggiatore e persino allevatore di cavalli da corsa con ottimi risultati, a poco più di vent’anni, tornato a Milano dopo essere stato arruolato nella prestigiosa scuola di cavalleria di Pinerolo. Poi Parigi, dove conobbe Cocteau, Bernstein, Gide, Renoir, dove divenne amico di Coco Chanel e poi la passione per il cinema, il teatro, l’irrefrenabile desiderio e volontà di esprimersi collezionando successi per tutta la vita. Bene, per riuscire ho interpellato in modo altrettanto immaginario Herbert George Wells, che di buon grado mi ha concesso in prestito la sua macchina del tempo, consigliandomi di non andare nel futuro. Dall’antiquata e pur straordinaria macchina mi sono fatto trasportare nel 1974 sul set di ‘Gruppo di famiglia in un interno’, per molti il film più complesso di Visconti, e precisamente a Roma, nell’appartamento del protagonista principale, l’austero Professore interpretato da Burt Lancaster. Tanto per la cronaca tutto era ricostruito a Cinecittà. Nella penombra Luchino Visconti saluta con un sorriso accennato.

Un altro film?  Malgrado…

Né la vecchiaia né la malattia hanno piegato la mia voglia di vivere e di fare. Io mi sento fresco per altri dieci film, non uno… Film, teatro, musical… Io voglio affrontare tutto, tutto”.

In questo film solitudine e morte sono presenti…

“La morte è l’ultimo atto della vita”.

Di tanto in tanto c’è chi la definisce decadente

“Quante volte si è parlato di me come di un decadente. Ma io ho della decadenza un’opinione molto alta, come l’aveva Thomas Mann per esempio. Sono imbevuto di questo spirito. Mann era un decadente di cultura tedesca, io di formazione italiana. Quello che mi ha sempre interessato è l’analisi di una società malata. A me interessano sempre le situazioni estreme, i momenti in cui una tensione abnorme rivela la verità degli esseri umani; amo affrontare i personaggi e la materia del racconto con durezza, con aggressività”.

Neorealismo?

“Io parlo più di realismo che di neorealismo. Noi dobbiamo porci in un’attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita:

in un atteggiamento, insomma, che ci consenta di vedere con occhio limpido, critico, la società così come è oggi e raccontare fatti che di questa società sono parte”.

Regia teatrale e regia cinematografica. C’è differenza?

“Mi interessa soprattutto lavorare con esseri umani, cercare nel fondo di un’anima la verità che essa tenta di esprimere: quella dell’autore, quella dei personaggi, degli attori che li interpretano, del pubblico. È per questo che mi è indifferente curare una regia teatrale o cinematografica. Non dipende dalla mia scelta il passaggio da una forma di espressione all’altra. Prendo ciò che viene. Resta inteso, comunque, che il cinema è una creazione. Il teatro soltanto un’interpretazione. Vi viene fornito un testo scritto in modo definitivo. Nel cinema, invece, bisogna inventare tutto. Da questo punto di vista è più appassionante. Ma in ogni caso, l’essenziale del lavoro consiste nelle relazioni che si stabiliscono con gli individui. Le differenze fra la recitazione di un attore cinematografico e la recitazione di un attore teatrale dunque sono più nel testo, nella materia che si affronta con quegli attori. Prima di fare del cinema io ho avuto una scuderia. E in fondo gli attori cosa sono? Dei purosangue. Nervosi, sensibilissimi. Che vanno blanditi o strapazzati a seconda dei momenti”

Le origini aristocratiche e benestanti hanno influenzato il suo stile?

“Sì, è vero, io provenivo da una famiglia ricca, ma mio padre, pur essendo un aristocratico, non era né stupido, né incolto. Amava la musica, il teatro, l’arte. Noi eravamo sette fratelli, ma la famiglia è venuta su molto bene. Mio padre ci ha educati severamente, duramente, ma ci ha aiutati ad apprezzare le cose che contavano, appunto la musica, il teatro, l’arte. Io sono cresciuto tra i palcoscenici. A Milano, nella nostra casa di via Cerva, avevamo un piccolo teatro, e poi c’era la Scala”

A questo punto, proprio come in un film l’inconfondibile voce di Luchino Visconti si affievolisce e lui scompare, l’ultima immagine è il suo sorriso accennato, Mozart in sottofondo passa in primo piano. Mi ritrovo nel Ventunesimo Secolo, tra i miei libri pensieri e immagini si affollano. Ossessione, Bellissima, Il gattopardo e così via… una tra tutte sommerge le altre: Claudia Cardinale e Burt Lancaster ballano insieme in uno splendido salone, sotto gli occhi di una società mutante e immutabile…

Nota: In questo incontro immaginario le parole di Luchino Visconti sono sue citazioni tratte da interviste d’epoca, scelte al di fuori dei luoghi comuni)