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IL CALCIO SENZA PUBBLICO È DESERTO DI PASSIONE E ALLEGRIA

Darwin Pastorin

Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione

Il campionato post lockdown è terminato: la Juventus (“un esperanto anche calcistico”, suggerì Giovanni Arpino) ha conquistato il suo nono scudetto consecutivo, permettendo all’allenatore Maurizio Sarri di ottenere il suo primo titolo di prestigio in Italia. È stato un torneo, dettato dal Covid, assurdo e paradossale, senza pubblico sulle gradinate, partite dopo partite, calciatori sfiniti dal caldo, troppo Var e troppi rigori; abbiamo assistito all’agonia di un evento: un calcio senza calore e senza colori, che si è trascinato, stancamente, sino all’ultima sfida. Il pallone ai tempi della pandemia è risultato strano, persino noioso malgrado i match dai tanti gol (sorridiamo pensando a Eugenio Montale: “Sogno che un giorno nessuno farà più goal in tutto il mondo”), con disfide senza anima e senza qualità. Resterà la bellezza dell’Atalanta di Gasperini, resteranno gli eterni ragazzi Buffon e Ibrahimović, la “Scarpa d’oro” Ciro Immobile, i molti giovani al valzer dei debuttanti.
Ma quegli stadi vuoti: quanta desolazione… Disse Pier Paolo Pasolini nel 1970: “Il calcio è l’ultima rappresentazione sacra del nostro tempo. È rito nel fondo, anche se è evasione. Mentre le altre rappresentazioni sacre, persino la messa, sono in declino, il calcio è l’unica rimastaci. Il calcio è lo spettacolo che ha sostituito il teatro. Il cinema non ha potuto sostituirlo, il calcio sì. Perché il teatro è rapporto fra un pubblico in carne e ossa e personaggi in carne e ossa che agiscono sul palcoscenico. Mentre il cinema è un rapporto fra una platea in carne e ossa e uno schermo, delle ombre. Invece il calcio è di nuovo uno spettacolo in cui un mondo reale, di carne, quello degli spalti dello stadio, si misura con dei protagonisti reali, gli atleti in campo, che si muovono e si comportano secondo un rituale preciso.

Perciò considero il calcio l’unico grande rito rimasto nel nostro tempo”. Invece, oggi: niente tifosi, niente applausi, dalla tv arrivavano, come da un pianeta lontano, le voci stridenti e confuse dei protagonisti in campo o sulle panchine. La nostalgia ci porta i versi di Vittorio Sereni per un match a San Siro tra la sua Inter e Madama Juventus: “Il verde è sommerso in neroazzurri . / Ma le zebre venute di Piemonte / sormontano riscosse a un hallalì / squillato dietro barriere di folla. / Ne fanno un reame bianconero. / La passione fiorisce fazzoletti / di colore sui petti delle donne”.
E la gioia dopo il gol ci è data da Umberto Saba: “La folla – unita ebbrezza – par trabocchi / nel campo. Intorno al vincitore stanno, / al suo collo si gettano i fratelli. / Pochi momenti come questo belli, / a quanti l’odio consuma e l’amore, / è dato, sotto il cielo, di vedere”. Come Eduardo Galeano, continuo a sentirmi “un mendicante di buon calcio”. E il buon calcio è il confronto acceso tra due squadre, ma anche lo spettacolo del pubblico in curva o in tribuna. È la gente l’anima del pallone. Senza gente non troviamo che deserto: di passione, di felicità, di allegria.