Avete fatto caso, ultimamente, agli scaffali “spiritualità” nelle librerie? Avete dato un’occhiata ai cartelloni delle stagioni teatrali? Con poche, importanti eccezioni, se lo farete, capirete quello che la Sinistra ha fatto alla cultura italiana. Teatro, Opera, Balletto, archeologia, magnifiche architetture, giardini storici, musica classica, liuteria, manifatture, pittura, scultura, intaglio, stamperia…
Esiste un rapporto inscindibile fra morale e politica o le due sfere sono assolutamente autonome? Il tema è sensibile fin dalle origini della societas e se ne discute nella modernità da Machiavelli passando per Max Weber e la sua monumentale opera sociologica, per Gramsci e il suo Partito-Principe, per Luhman, considerato dai suoi estimatori il Machiavelli del XX secolo. Ma non è tema per soli autori, anche e soprattutto politici eccellenti, per disgrazia o per nobiltà, han finito con il fare i conti con i significati di politica e morale, e non infrequentemente è accaduto che una politica sia precipitata nella inconsistenza per eccesso di moralismo o che un’altra sia finita nell’indifferenza ad ogni principio civico e morale.
Una riflessione di Luigi Einaudi e l’evoluzione dei modelli politico-sociali
“Discorso elementare sulle somiglianze e sulle dissomiglianze fra liberalismo e socialismo” è il titolo di un articolo di Luigi Einaudi pubblicato l’1 gennaio del 1957.Il grande statista tracciava in modo elementare, quanto ricco negli argomenti e nelle suggestioni, la differenza fra due antropologie umane e politiche, quella liberale e quella socialista.
Il linguaggio costituisce mente e anima di una comunità, dei suoi rapporti materiali, civici ed economici. Se le parole tacciono, se il linguaggio cessa di comunicare idee, regole condivise, terreni di ricerca, spinte al cambiamento, le relazioni sociali si bloccano, e la comunità perde la sua trama. Ciò avviene fra membri di una o più classi dirigenti, negli ambienti professionali e di lavoro, fra classi dirigenti e popolo, e quando cessa la comunicazione va in crisi lo stesso sviluppo dei progetti di direzione e di governo.
CULTURA
BEPPE FENOGLIO
Salvatore Vullo
Grande merito di Fenoglio è quello di aver dato voce e rappresentazione alle donne del mondo contadino.
Beppe Fenoglio, nato ad Alba nel 1922, morto a Torino nel 1963, è stato un grande scrittore del secondo Novecento. Le opere letterarie che lo hanno reso famoso sono: “I ventitré giorni della città di Alba”, pubblicato nel 1952; “La malora”, pubblicato nel 1954; “Primavera di Bellezza”, pubblicato nel 1959. Le altre sue opere sono uscite postume, dopo la sua precocissima morte, ricavate dai tanti suoi scritti e appunti vergati a mano, sparsi e spersi. Fenoglio scriveva a mano usando il retro dei fogli di contabilità della macelleria del padre e della carta intestata dell’azienda vinicola in cui lavorava. Le altre sue opere, in ordine cronologico di pubblicazione, sono le seguenti: “Un giorno di fuoco” (1963); “Una questione privata” (1965); “Il partigiano Johnny” (1968); “La paga del sabato” (1969). Una fama conquistata duramente e postuma, per le oggettive difficoltà del dopoguerra, per il contrastato rapporto con gli editori e la critica; i giudizi un po’ stroncanti di Vittorini, dominus dell’Einaudi; la sua morte troppo precoce, che ne fa un simbolo di una grande vita incompiuta. Si dice che la cultura contadina ha lasciato molte tracce materiali, ma pochissime parole, e solo pochi grandi scrittori del ‘900 hanno saputo e voluto raccontare quel mondo contadino e rurale, la terra e i suoi frutti, e ne hanno fatto sublime letteratura; Fenoglio è uno di questi, assieme a pochi altri come Leonardo Sciascia, Carlo Emilio Gadda; ed ancora, i piemontesi come Mario Soldati, Davide Lajolo e Cesare Pavese. Ma, come ricorda Davide Lajolo: “…Nella letteratura, con Pavese e Fenoglio, si raggiunge il massimo del vissuto e della rappresentazione del mondo contadino …”. Ed è il mondo contadino delle Langhe, quello rappresentato dai due scrittori: Pavese, nato nel 1908 a Santo Stefano Belbo, nella casa dove la sua famiglia, trasferita a Torino, trascorreva le vacanze estive, e dove Pavese trascorre le estati della sua giovinezza; Fenoglio: nato nel 1922 ad Alba, dove viveva la sua famiglia (il padre aveva una macelleria), e che trascorreva le vacanze estive tra Murazzano, San Benedetto Belbo e Bossolasco, nell’alta Langa, dove avevano origine i parenti paterni. Ma mentre i paesaggi e gli uomini descritti da Pavese sono avvolti dalla nostalgia e visti attraverso il mito, quelli di Fenoglio sono reali, aspri, selvaggi, densi di furore, di sangue. Comunque, prima Pavese, a seguire Fenoglio, entrambi portano le Langhe nella grande letteratura; anche per questo le Langhe, oltre che un suggestivo territorio del Piemonte, diventano un luogo mitico, un “luogo dell’anima”. Della terra di Piemonte, la Langa ne rappresenta il luogo arcaico, remoto, cuore e simbolo. Una sorta di scrigno che ne raccoglie la storia, i valori, l’identità, le tradizioni più autentiche. Espressione di quel mondo contadino e rurale sui cui affondano le nostre radici, luoghi simbolo delle fatiche e miserie di un non tanto lontano passato. Ma le Langhe, con la sua razza di “Langhetti”, sono anche il simbolo dell’umanesimo e del rinascimento piemontese. Grazie proprio agli uomini e donne di Langa, alla loro caparbietà, senso del sacrificio, laboriosità, voglia di affrancarsi, di riscatto, che sono gli elementi caratteristici e peculiari del Piemonte. Beppe Fenoglio è un grandioso simbolo di questo rapporto con la Langa, la terra che ispira tutte le sue opere, che ne fa da scenario, che ne rende protagonisti i suoi abitanti. Un rapporto, quello tra Fenoglio e le Langhe, che è durato per tutta la sua breve vita. Fenoglio, infatti, non si è mai allontanato da quella terra, se non per il servizio militare. Alba divenne il suo luogo di vita e di lavoro; infatti, nel 1947 iniziò a lavorare nell’azienda vinicola Marengo di Alba e vi rimase per tutta la vita. Anche da scrittore affermato furono rari, sempre brevi e fugaci, i suoi spostamenti. Anche per il suo carattere schivo, chiuso e taciturno, rifuggiva dalle grandi città e dagli avvenimenti mondani. Le Langhe dunque protagoniste dei suoi racconti. Le Langhe crudeli e insanguinate della guerra partigiana, raccontate dalla sua esperienza diretta di partigiano, ne “I ventitré giorni della città di Alba”, e ne “Il Partigiano Johnny”, vissute attraverso la sua esperienza diretta di partigiano, iniziata verso l’autunno del 1943 in una delle prime formazioni (di orientamento comunista), poi, nell’estate del 1944, nelle formazioni badogliane “azzurre” del comandante “Mauri” (Enrico Martini), assegnato a un reparto operativo a Mango affidato al famoso comandante “Poli”, (Piero Balbo). Ma nella Resistenza vissuta e raccontata da Fenoglio non c’è l’ideologia, c’è il mito e l’epica degli eroi antichi; la guerra partigiana è una continua tragedia esistenziale, in una visione eroica e individualista; su tutto prevale la violenza e la morte. Insomma, in quelle Langhe raccontate da Fenoglio c’è il “sangue” della guerra e della lotta partigiana, che diventa l’altra faccia, complementare, delle Langhe del “sudore”: le Langhe aspre e selvagge con gli uomini, le donne, i fatti e le miserie del mondo contadino e rurale, raccontate in modo sublime in quel capolavoro che è “La malora”. Possiamo anche rilevare che il dialetto e la parlata contadina delle Langhe, dove anche la parola è un lusso, con le loro frasi e battute lapidarie, scarne, semplici, illuminanti, sono parte importante nella costruzione del linguaggio letterario di Fenoglio e ancor più nella originalità di quel linguaggio. Altro grande merito di Fenoglio è quello di aver dato voce e rappresentazione alle donne di quel mondo contadino, come vediamo magistralmente ne “La malora” con la mamma di Agostino Braida e con la moglie del mezzadro Tobia Rabino. Quelle donne che costituiscono “l’anello forte”, come le aveva definito Nuto Revelli, architrave su cui si reggeva la famiglia; sulle donne gravavano compiti e lavori nell’azienda agricola, oltre che curare la casa, fare la moglie, allevare i figli, curare i rapporti spesso crudi e conflittuali tra padri e figli, curare i rapporti e le relazioni sociali, assicurare alla famiglia un minimo di decoro, civiltà, religiosità. E Fenoglio riesce ad esaltare, a rendere possenti, con la loro dignità e forza, queste figure di donne che, come magistralmente ci induce a notare lo scrittore, non hanno neanche un nome proprio; la mamma di Agostino Braida, viene indicata sempre con pronomi “lei” o con aggettivi “donna”: “… Donna con del buon tempo…” così Braida richiama la moglie. E il mezzadro Tobia che parla della moglie al suo padrone, il farmacista: “… Ho lei che da un po’ di tempo si lamenta … che non si sente proprio niente bene…”. “ … Tobia, la tua donna è frusta, è ora che le prendi una servente …” E, attraverso la figura della mamma di Agostino, Fenoglio ci fa anche magistralmente scoprire che erano le donne nelle cascine di Langa ad allevare due-tre pecore, mungerle, fare le tome e, spesso, andarle a vendere.
Del resto sappiamo che in questo territorio tradizionalmente è diffuso l’allevamento di “Pecore delle Langhe”, una razza autoctona rustica e molto produttiva, e il loro latte dava origine a quelle tome (o Robiole come le definisce Fenoglio) che sono diventate l’attuale formaggio a Denominazione d’Origine Protetta (DOP) “Murazzano”, prodotto nel territorio dei comuni dell’Alta Langa. “La Malora” è la storia del giovane Agostino Braida, protagonista, io narrante del romanzo, che per le gravi condizioni economiche della sua famiglia va a fare il servitore presso il Pavaglione, la cascina del mezzadro Tobia Rabino. Ecco alcuni passi emblematici. Agostino racconta le miserie di casa sua: “… Ma a mezzogiorno e a cena ci trovavamo davanti sempre più poca polenta e quasi più niente Robiola … Nostra madre raddoppiò la sua lavorazione di formaggio fermentato, ma non ne lasciava toccare neanche le briciole … E quando seppe che a Niella ne pagavano l’arbarella un soldo di più che al nostro paese, andò a venderlo a Niella, e saputo poi che a Murazzano lo pagavano qualcosa meglio, si faceva due colline per andarlo a vendere lassù …” Ma anche a casa di Tobia non era molto meglio: “… Da Tobia si mangiava di regola come a casa mia nelle giornate più nere. A mezzogiorno come a cena passavano quasi sempre polenta, da insaporire strofinandola a turno contro un’acciuga che pendeva per un filo dalla travata; l’acciuga non aveva già più nessuna figura d’acciuga e noi andavamo avanti a strofinare ancora qualche giorno …”
Tobia, confida al figlio il suo sogno: “…Una dozzina di giornate, tutte a solatio, da tenere mezze a grano e mezze a viti. Con una riva da legna e anche un pratolino da mantenerci due pecore e una mula.
-E dove sarebbe questa terra?
-Mica qui, mica in questa Langa porca che ti piglia la pelle a montarla, prima che a lavorarla…”
Agostino al fratello che studia in seminario: “ … Gli dissi: si vede che non sei più di campagna. All’epoca che tu sei a casa in vacanza io lassù ho il grano e poi le uve …”
Ancora Agostino: “ … Una sera spogliavamo la meliga e sull’aia del Pavaglione ci sarà stata mezza la gioventù di lì intorno: Tobia comanda a Fede di fare il giro di chi ha sete, lei a tutti passa acqua e aceto e a me dà del vino …”
Agostino, conosce Mario Bernasca, altro giovane servitore e diventano amici. Ecco quello che dice Mario: “…Sei mica matto che torneremo ad aggiustarci su questa Langa, dove la terra da la scusa ai padroni di trattarci male. Andiamo ad aggiustarci da un’altra parte… C’è un ragazzo del mio paese che ha la fortuna di essersi aggiustato in Val di Diano … A parte la terra che là è più tenera la mentalità di quei padroni là, che al paragone i nostri fanno schifo … Là alla domenica i padroni ai servitori gli regalano a testa una coppia di uova da cambiare alla censa col tabacco da fumare … ti danno licenza di ricevere i tuoi amici nella loro cantina, e non parliamo del vino, ma c’è sempre a disposizione un cestone di pane e un bariletto di peperoni sott’olio …”
Ancora Agostino nel felice finale: “ … Ho fatto quel ritorno come la cosa più bella della mia vita. Era la mia vera festa, e ad Arguello mi fermai all’osteria, comandai una bottiglia di Moscato e me la bevetti tutta per festeggiarmi …” Da “Il partigiano Johnny”: “… Defluirono tutti in cucina e la donna disse: – Stanotte cucinerò per voi, e forse siete gli ultimi partigiani per il quale potagio …- … Propose polenta e crauti, formaggio e nocciole, ma gli uomini gridarono che volevano carne per quella specialissima cena …Così ebbero pollo e coniglio ed il loro brodo, che mangiarono avidamente, sedendo arrestati sull’ammattonato …” Fenoglio, dunque, è stato un grande scrittore piemontese di fama internazionale che nelle sue tante pagine letterarie ha magistralmente rappresentato quel mondo contadino e rurale delle Langhe, pagine che sono un simbolo universale della nostra storia di ieri: densa di fatiche e miserie, ma anche di dignità, di volontà di riscatto e di emancipazione. Anche per questo, nel 2013, anno delle celebrazioni del 50° della morte di Beppe Fenoglio, con un bel programma predisposto dal Centro Studi Beppe Fenoglio di Alba, anche l’assessorato all’agricoltura della Regione Piemonte ha voluto compartecipare al programma. E lo ha fatto in anteprima nell’ottobre del 2012 al Salone Internazionale del Gusto di Torino, ricordando il rapporto tra Fenoglio e il mondo contadino nell’ambito del convegno per presentare il programma delle celebrazioni. Nel 2013 si è iniziato al Vinitaly di Verona, sul tema “Fenoglio e le terre del Moscato”. Celebrato anche nella edizione di Cheese a Bra, nell’incontro dedicato allo scrittore che ha dato voce e rappresentazione alle donne di quel mondo contadino, cui hanno partecipato le rappresentanti femminili delle organizzazioni agricole piemontesi. Infine, nel novembre 2013 a Milano durante la manifestazione “Piemonte Anteprima Vendemmia 2013”, con un finale dedicato a Fenoglio e l’assegnazione dell’omonimo premio “alla memoria”, dedicato allo scrittore nel 50° della morte, alla presenza della figlia Margherita Fenoglio e di Giulio Parusso, direttore del Centro Studi Beppe Fenoglio.
Concludiamo questo articolo con Marisa Fenoglio, sorella dello scrittore, scomparsa nel 2021, che qualche anno prima, in una intervista, sul quotidiano La Stampa, a proposito del fratello, tra l’altro, diceva che “…“I grandi scrittori sono immortali. Di loro c’è l’immane presenza … Beppe Fenoglio è il compagno insostituibile di ogni camminata di Langa; l’occhio con cui guardiamo i suoi paesaggi; l’interprete delle nostre sensazioni, l’ispiratore dei nostri pensieri …”.
E dunque facciamo nostri questi sublimi pensieri e splendide parole, e li rievocheremo ogni volta che saremo in quelle Langhe che, grazie anche a Fenoglio e alle sue opere, nel 2014, sono diventate, con il riconoscimento UNESCO, Patrimonio dell’umanità.
O più semplicemente Marina Cicogna. Una vita all’insegna dell’eleganza, questo è quello che emerge assistendo ad uno straordinario docufilm firmato da Andrea Bettinetti con il produttore Riccardo Biadene e distribuito da Cinecittà Luce. La storia straordinaria di una donna straordinaria, tutto quello in cui si è cimentata, è stato un successo, come ha ricordato la regista Liliana Cavani.
Nella raccolta curata da Mara Antonaccio “Uguali? No grazie!” molte e tutte interessanti le riflessioni dei vari autori sul femminismo, galassia ampia e costellata da innegabili conquiste, grazie all’impegno e alle rivendicazioni femminili, accanto a perduranti pregiudizi millenari occultati da apparenti mutamenti di costume e di opinioni. Particolarmente opportuna, da parte della curatrice, la storicizzazione del femminismo: le sue fasi, le sue differenze e i suoi specifici caratteri nazionali: il femminismo tradizionale con le sue battaglie per la parità e l’uguaglianza delle opportunità, il post femminismo con la sua carica rivendicativa talvolta rabbiosa e revanchista che ci induce a orientare lo sguardo verso un più fertile concetto di differenza femminile, interpretabile come libertà di esprimere sé stesse, la propria originalità, individuando nel rapporto uomo -donna la differenza che si relaziona: una diversità che accresce visione e potenzialità di entrambi.
“Ernesta, chi è il furfante che mi ha rotto il vetro?” Tenendo fra le mani il pallone rosso responsabile della malefatta, interpello trafelata la portinaia del mio palazzo di piazza Cavour 3, una portinaia sui generis, che suona divinamente il pianoforte e inonda il cortile con le note di Mozart e Puccini. “Oh, no! Turna..è il mio Nando”, mi risponde, indicandomi il ragazzino magro in fuga verso i giardinetti, che si volta per scrutarmi, occhi vivaci sotto un ciuffo impertinente e un’espressione di sfida che tradisce un sorriso divertito.
Dopo due anni di segregazione sono state recuperate tutte le modalità di prima della pandemia per poter attrarre ed avere le presenze, non solo degli interessati a mare e montagna, ma anche a luoghi di Cultura, fonte di benefici diretti ed indotti. Hanno riaperto i Convegni, Teatri, Musei, Dimore Storiche, Mostre ma molto si è puntato su rievocazioni e anniversari. Sfortunata quella del” Divin Pittore “a Roma, nei 500 anni della morte di Raffaello, inaugurata e subito chiusa, nonostante il solerte adeguamento ai DPI della direzione delle Scuderie del Quirinale. Si è passati quindi a Leonardo, con celebrazioni in tutte le città vissute dal Genio fiorentino, poi Dante, con le doverose, sacrosante celebrazioni al Padre della nostra bella ma bistrattata lingua.
Citando Benedetto Croce: “Io non la farò la storia del fascismo perché mi disgusta; però, certo, se la dovessi fare, direi che la dovrei fare in questo e questo modo”, De Felice sostenne che era il contrario di come si faceva in quegli anni (e purtroppo sovente anche ora).