VIAGGI

LE CITTÀ VISIBILI

Enrico Borla

Spesso l’altra persona vi dirà: ma questo non l’avevo visto, questa città non era così!

 “Partendosi di là e andando tre giornate verso levante, l’uomo si trova a Diomira, città con sessanta cupole d’argento, statue in bronzo di tutti gli dei, vie lastricate in stagno, un teatro di cristallo, un gallo d’oro che canta ogni mattina su una torre. Tutte queste bellezze il viaggiatore già conosce per averle viste anche in altre città. Ma la proprietà di questa è che chi vi arriva una sera di settembre, quando le giornate s’accorciano e le lampade multicolori s’accendono tutte insieme sulle porte delle friggitorie, e da una terrazza una voce di donna grida: uh! Viene da invidiare quelli che ora pensano d’aver già vissuto una sera uguale a questa e d’esser stati quella volta felici.” Così la prima città descritta da Italo Calvino. Ora questo virtuosismo letterario non è molto lontano da quello che accade al fotografo viaggiatore. Nel suo archivio, se abbastanza attempato, si accumulano centinaia. forse migliaia di scorci di città, paesi, villaggi visitati e fotografati in cui è stato felice. Certo il nostro fotografo avrà immortalato i monumenti connotativi, che rendono il luogo riconoscibile a noi, e con l’aiuto del conscio avrà prodotto cartoline, documentari, ricordi di viaggi.  Ma il fotografo di città è ossessionato da una fantasia: fotografare lo scorcio mai fotografato. Il tetto, il lampione, il muro, il barbone, la vista improbabile fra due edifici, la colonna e la statua fermate in un istante di luce particolare e raro. Tutte le volte che armati della nostra fotocamera ci aggiriamo nella nostra città o in un paese mai visitato prima, coltiviamo questa presunzione. Tronfi nel nostro mezzo e nel nostro occhio, guardiamo con sufficienza le frotte dei turisti che ritengono come massimo orgoglio essere immortalati con il Ponte di Rialto alle spalle, oppure il Colosseo, la Tour Eiffel, il London Eye, la collina di Hollywood, il Sunset Boulevard, il ponte di Brooklyn e tutti quei luoghi connotativi che sono entrati nel nostro immaginario collettivo. Chi non saprebbe descrivere la Piazza Rossa, o le piramidi di Giza o Times Square. Ma queste, come già detto, sono oggetti che connotano, sono usurati dallo sguardo, banali nella loro riproduzione. Il vero fotografo cerca altro: lo squero nascosto, lo scorcio da via Margutta, uno sguardo dal quartiere Aurora di Torino, la banlieue pittoresca con i suoi abitanti stranieri ai nostri usi, la bancarella del suk, il volto celato dal velo nel Bazar di Instabul. Questo con il passare degli anni provoca uno strano effetto, se il nostro fotografo mischia le fotografie scattate negli anni di viaggi accade un piccolo misterioso miracolo. Le fotografie si sottraggono al luogo di scatto, non appartengono a quel villaggio di Provenza o Bretagna, né ad un paesino della Mancia o dei paesi Baltici. Le fotografie si confondono, scorci, lampioni, selciati, piazze, fontane, usci, portoni, volti diventato un carosello dove tutto si confonde.

A volte la memoria ci aiuta e riusciamo a ricordare il luogo e il tempo ma più spesso le nostre foto divengono le fotografie di un’unica città. Ed è bello confrontare queste fotografie con quelle scattate da un amico, dal partner, da qualcuno che insieme oppure in tempi diversi ha percorso i medesimi luoghi. Spesso l’altra persona vi dirà: ma questo non l’avevo visto, questa città non era così! Queste foto sembrano tutte uguali! Ma se le foto sono sincere al vostro accompagnatore arriverà un brivido di commozione ed una fuggevole lacrima. Potremmo con sfrontatezza paragonare la fotografia delle città a quello che Nietzsche affermava circa la storia nelle “Considerazioni inattuali”. Il filosofo, in polemica con lo storicismo tedesco, affermava che esistono tre tipi di storia, Per Nietzsche non esistono solo fatti ma interpretazioni. Esattamente come accade nella fotografia.   Esiste una storia monumentale che ci tramette la coscienza delle grandi cose ma deforma i valori e le vicende del passato; esiste una storia antiquaria che conserva il senso della tradizione ma che vira nel collezionismo maniacale e mortifica i fini e i valori del passato. Infine esiste una storia critica che secondo Nietzsche esprime un’istanza legittima di giudizio del passato ma che può portare alla presunzione vana che si possa farne a meno. Similmente la fotografia di una città si compiace di monumenti che spesso non sono altro che cartoline, oppure in modo ossessivo cerca di ritrarre ogni particolare, oscurandone l’anima e compensandola con una topografia degna di Google View. Infine esiste una fotografia critica che interpreta lo spirito della città, ovviamente con il rischio di annullarne la specificità. Monumenti e souvenir ormai traboccano da ogni social. L’anima di un luogo è invece opera assai fine e sicuramente collegata al fotografo. Anzi, come accennavo prima, ad un certo punto del proprio percorso creativo, la città reale scompare, sostituita dalla riproduzione della nostra città interiore. Un locus animae personale che al contempo continua a dialogare con le strutture reali, una città visibile ma che diviene invisibile perché appartiene alla nostra geografia interiore. Una geografia fatta di ricordi, preferenze, umori, amori ed anche insofferenze. Una mappa fotografica della nostra psiche. Quella città che ci appare nei sogni e in cui abitiamo realmente. Proprio come scrisse a proposito Brodskij, nelle “Fondamenta degli incurabili”, elevato omaggio allo stato onirico che pervade Venezia: “Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama.”